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Tornare bambini?
Appunti sparsi su psichedelia, plasticità e legami del Dr. Daniele Damiani
Daniele Damiani è psicologo e psicoterapeuta, membro del Direttivo di SIMEPSI e formato sia in Terapia Cognitivo-Comportamentale che in Integration-Focused Therapy alla Mind Foundation.
Ma soprattutto è una persona schietta, con cui si può parlare di tutto, anche delle cose più scomode, senza sentirsi mai giudicati. E, pregio più importante di tutti, è uno dei pochissimi che si ricorda sempre che sono intollerante al lattosio.
Proprio questa settimana è uscito il suo intervento a Sigmund, uno dei podcast più seguiti sul tema della salute mentale in Italia.
Questa sarà una newsletter diversa dal solito.
Qualche tempo fa Daniele ha scritto un testo che gli è rimasto un po’ in tasca, dice che non se l’è filato nessuno. Quindi eccolo qui, in versione integrale, perché secondo me vale la pena condividerlo.

Cosa intendono davvero, quando dicono: “Mi sono sentito come un bambino”?
È una frase che ricorre spesso nelle testimonianze di chi ha vissuto esperienze psichedeliche profonde. La si trova nei racconti raccolti in contesti clinici regolamentati – come quelli presenti negli studi su MDMA, psilocibina, ayahuasca – e nei survey qualitativi.
All’inizio può sembrare solo una metafora. Ma con il tempo ho imparato a non archiviarla troppo in fretta.
Cosa vuol dire, davvero, sentirsi come un bambino?
Quale parte di quella condizione antica viene riattivata quando la coscienza si espande, si deforma, si apre?
Sono convinto che, nella maggior parte dei casi, chi pronuncia quella frase lo fa per descrivere un senso di meraviglia, di stupore radicale, di realtà amplificata.
Ma se prendiamo sul serio l’analogia – e se ci concediamo uno sguardo clinico e speculativo insieme – allora possiamo spingerla oltre. Possiamo domandarci se non esistano anche altri aspetti che legano profondamente l’esperienza psichedelica alla condizione infantile.
E forse, in questo allargamento dell’analogia, possiamo intravedere qualcosa che parla tanto del bambino, quanto dell’adulto in quella particolare condizione.
Plasticità e meraviglia: la mente che rinasce
La mente del bambino è plastica. Questa è ormai una verità condivisa, sia dalle neuroscienze che dall’osservazione clinica. Le connessioni neurali crescono a vista d’occhio. Le reti cerebrali sono meno gerarchizzate, più fluide, più aperte alla sorpresa.
Sappiamo dalla letteratura neuroscientifica che, nei primi anni di vita, il cervello è estremamente plastico. Le connessioni neurali si moltiplicano, le reti cerebrali sono meno specializzate e più comunicanti. È un’architettura provvisoria, ricettiva, in costante modellamento. In questa condizione biologica si radica anche un modo di sentire il mondo: pieno di meraviglia, sorpresa, immediatezza.
Nelle ricerche con neuroimmagini su soggetti sotto l’effetto di psilocibina o LSD (Carhart-Harris et al., 2014; 2021), si osserva una configurazione simile: aumentata connettività tra aree cerebrali solitamente separate, diminuzione dell’attività del Default Mode Network, maggior “entropia” funzionale.
Curiosamente, tra i descrittori fenomenologici riportati in questi studi e in altri lavori qualitativi, compare spesso proprio quella frase: “come tornare bambini”. È un vissuto condiviso, presente tanto nei trial clinici quanto nei report non clinici.
E allora mi chiedo: è possibile che la meraviglia provata sia la forma soggettiva di quella plasticità? Che l’apertura percettiva, l’intuizione, il senso del nuovo non siano altro che la coscienza che si piega a una configurazione infantile, anche solo per qualche ora?
In termini cognitivi, si potrebbe ipotizzare che questa plasticità si manifesti anche a livello di credenze centrali: per un breve tempo, le strutture profonde del pensiero – “io non valgo”, “il mondo è pericoloso”, “nessuno mi ama” – perdono rigidità. La coscienza può allora esplorare nuove possibilità di significato, di sé e dell’altro.
La relazione che tiene: vulnerabilità e bisogno dell’altro
Ma il bambino non è solo meraviglia e scoperta. È anche vulnerabilità. Dipendenza. Fame di sguardi regolanti.
In molte testimonianze raccolte – sia in contesti terapeutici strutturati (come in Svizzera, Olanda, Oregon), sia in ambienti informali – emerge un altro elemento: la regressione relazionale.
Alcune persone riferiscono emozioni intense legate all’infanzia, al bisogno di essere accolti, abbracciati, contenuti. Alcune parlano della presenza del terapeuta (o di una figura di supporto) come di una madre, un padre, un rifugio. In altri casi, l’assenza di un riferimento saldo genera disorientamento, angoscia, un senso di “abbandono cosmico”.
In ambito clinico, questo richiama le dinamiche dell’attaccamento: l’esperienza psichedelica, in certe condizioni, riattiva bisogni relazionali primari, e lo fa con una forza tale da chiedere una presenza significativa, stabile, “sufficientemente buona”.
Qui, il ruolo del terapeuta si trasforma. Diventa, temporaneamente, una figura genitoriale: non nel senso che guida o spiega, ma in quello più profondo di presenza regolante. Di holding. Di sitting.

Un bambino solo? No: molti bambini (e forse nessuno)
Non esiste un solo “bambino interiore”. Alcuni si manifestano come libertà, curiosità, tenerezza. Altri come vuoto, bisogno, frattura.
Quando una persona adulta dice “mi sono sentito come un bambino”, potrebbe riferirsi:
al bambino libero, vitale, spontaneo;
al bambino curioso, sensibile, esploratore;
ma anche al bambino spaventato, trascurato, congelato;
o al bambino che ha imparato presto a non sentire, a non chiedere, a non aver bisogno.
L’esperienza psichedelica può riattivare queste parti. Ma quale parte si attiva dipende dalla storia.
Ci sono adulti che hanno imparato molto presto a non sentire. Altri che hanno sentito troppo, e senza protezione. Ci sono parti dell’infanzia che non sono mai diventate passato: restano come zone congelate della psiche, pronte a riattivarsi quando qualcosa le tocca.
In questi casi, si può intravedere l’attivazione di schemi disfunzionali precoci, come l’autosvalutazione, l’abbandono, l’inadeguatezza. Ma l’esperienza psichedelica, se ben accompagnata, può offrire un terreno esperienziale in cui questi schemi non vengono confermati – e quindi, forse, possono cominciare a trasformarsi.
Ecco perché non è detto che “sentirsi come un bambino” coincida con l’apertura alla meraviglia. Potrebbe invece coincidere con la riattivazione di uno stacco esperienziale, di una ferita mai integrata, di un vuoto affettivo.
È un bambino che non gioca: è un bambino che aspetta ancora qualcosa.
Il gruppo come spazio poroso: co-regolazione e risonanza
In alcune realtà dove le esperienze psichedeliche sono legalmente permesse, esistono percorsi condotti in gruppo, anche a scopo terapeutico. Non ho esperienza diretta in questo campo, ma ho potuto leggere le descrizioni di chi li ha vissuti o facilitati, e ciò che colpisce non è tanto la funzione protettiva del gruppo, quanto la sua natura porosa, risonante, molteplice.
Il gruppo non è un contenitore chiuso, ma un campo in cui si intrecciano presenze, respiri, storie. Ognuno vi entra con il proprio paesaggio interno, ma finisce per partecipare – anche in modo implicito – alla regolazione affettiva collettiva. Le emozioni circolano, si rispecchiano, si amplificano. Ci si tocca senza toccarsi.
In questo spazio, la funzione terapeutica non si concentra in una sola figura. I facilitatori, quando presenti, non guidano né interpretano: tengono il ritmo, regolano il campo, accompagnano lo scorrere.
E spesso, l’esperienza più trasformativa nasce non dalla parola del terapeuta, ma dallo sguardo dell’altro, da un gesto casuale, da un silenzio condiviso.
Non è regressione: è discontinuità esperienziale
Un rischio, quando si parla di queste esperienze, è quello di ridurle alla categoria “regressione”. Ma ciò che accade è spesso più sottile.
Non si tratta (solo) di tornare indietro, ma di incrociare una parte della propria esperienza che non è mai stata pienamente metabolizzata. Una parte che non ha avuto luogo. Che è rimasta sospesa. È una discontinuità interna che si rende visibile.
L’esperienza psichedelica, in certi casi, sembra generare una riconnessione differita a ciò che non è stato vissuto fino in fondo.
Il terapeuta non contiene un bambino, ma una frattura
Anche qui: attenzione alla metafora. Quando il terapeuta incontra un paziente che ha vissuto un’esperienza psichedelica intensa, non sta accogliendo un “bambino”.
Sta accogliendo un adulto che ha fatto esperienza di un’apertura profonda – un’apertura che può includere il dolore, la bellezza, il terrore, la meraviglia.
Quello che emerge non è una parte immatura da proteggere, ma una soglia. Una zona fragile e fertile allo stesso tempo. Il lavoro terapeutico, allora, non è “spiegare” o “interpretare”, ma stare. Ascoltare. Essere lì mentre qualcosa, lentamente, trova un nuovo modo di farsi forma.
Attaccamento e apertura: quando il bisogno fa paura
Una delle domande più sottili riguarda cosa accade a persone con stili di attaccamento organizzati sulla distanza o con attaccamento disorganizzato.
Un soggetto con attaccamento evitante, ad esempio, ha costruito un’intera struttura psichica per non sentire il bisogno. Per non dipendere. Per non essere “visto troppo da vicino”.
Cosa succede se, durante un’esperienza psichedelica, questa difesa si scioglie? Se emerge – all’improvviso – un desiderio antico di contatto, di contenimento, di essere tenuto?
In alcuni casi, il primo sentimento non è sollievo. È panico. O vergogna. L’apertura, quando è rapida e non preparata, può essere vissuta come una rottura, non come una rivelazione.
Tuttavia, se ben preparata e accompagnata, questa stessa apertura può diventare un passaggio trasformativo: la parte adulta può assistere, contenere, permettere un’esperienza emozionale correttiva. Possono succedere tante cose.

Il corpo come voce antica
Il bambino, prima della parola, parla con il corpo. Gioca, urla, morde, si ritira. Esprime sé stesso attraverso il gesto, il tono, il ritmo.
Anche nell’adulto sotto psichedelici, il corpo si fa canale. Alcuni tremano, si contorcono, assumono posture improvvise, o si immobilizzano. Non si tratta di “effetti collaterali”, ma forse di modi arcaici di sentire. Il corpo, come accade nei bambini con sintomi internalizzanti o esternalizzanti, può anticipare ciò che la parola non ha ancora elaborato.
È possibile che il modo in cui un corpo si muove durante l’esperienza psichedelica racconti qualcosa della struttura affettiva di quel soggetto?
In chiave cognitiva, possiamo pensare al corpo come al primo luogo in cui certe credenze fondamentali si sono incarnate. La tensione che protegge, la postura che trattiene, il gesto che anticipa il rifiuto: ogni schema mentale è anche una memoria somatica.
Visioni simboliche e linguaggio pre-verbale
“Non vedevo il serpente. Ero il serpente”.
Questa espressione – emblematica – è emersa in molte testimonianze riportate in studi su DMT e ayahuasca (Shanon, 2002; Griffiths et al., 2006). Non si tratta solo di immagini, ma di immersione simbolica, tipica del pensiero magico preoperatorio (Piaget) o delle prime fasi dello sviluppo.
Anche il bambino non descrive: vive. Non spiega: interpreta con il corpo e il gioco.
Chi attraversa l’esperienza, in stati profondi, sembra riattivare una coscienza pre-narrativa, che ha bisogno di essere successivamente tradotta, ma che non può essere ridotta a parole senza perdere potenza.
Conclusione provvisoria: un ritorno che non è mai solo indietro
“Tornare bambini” è un’immagine potente. Ma non è mai lineare. Non è regressione pura. È apertura a qualcosa di antico e irrisolto. È simbolo, è corpo, è bisogno. E soprattutto, è esperienza radicalmente condizionata dalla storia del soggetto.
Può voler dire tante cose. Può essere un movimento verso la vita, ma anche un riemergere del non detto. Può essere una poesia o un’allerta. Un inizio o una difesa.
Come terapeuti, non dobbiamo risolvere questa ambiguità. Dobbiamo abitarla, con rispetto. Possiamo accompagnare questo ritorno con lo sguardo attento di chi non chiede chiarezza, ma si offre come spazio di senso.
Grazie a chi è arrivato fin qui a leggere e grazie a Daniele per avermi affidato questo testo. Si può parlare di psicologia (e di vita) senza perdere la voglia di giocare.
Noi ci rileggiamo la prossima settimana con un nuovo articolo scientifico bomba su psichedelici e sistema immunitario! 😎
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Riferimenti
Carhart-Harris, R. L., et al. (2014). The entropic brain hypothesis. Frontiers in Human Neuroscience.
Carhart-Harris, R. L., & Friston, K. (2021). REBUS and the anarchic brain. Pharmacological Reviews.
Griffiths, R. R., et al. (2006). Psilocybin can occasion mystical-type experiences. Psychopharmacology.
Grof, S. (1985). Beyond the Brain: Birth, Death, and Transcendence in Psychotherapy. SUNY Press.
Johnson, M. H., et al. (2001). Functional brain development in humans. Nature Reviews Neuroscience.
Piaget, J. (1936). La nascita dell’intelligenza nel bambino.
Shanon, B. (2002). The Antipodes of the Mind. Oxford University Press.
Watts, R., et al. (2017). Patients’ accounts of connectedness and acceptance after psilocybin. Journal of Humanistic Psychology.
Winnicott, D. W. (1971). Gioco e realtà. Armando Editore.