- Studio Aegle
- Posts
- Psilocibina e disturbo ossessivo-compulsivo
Psilocibina e disturbo ossessivo-compulsivo
Quando un'esperienza "incompleta" è clinicamente rilevante
Sabato 27 dicembre alle ore 14, presso La Redazione di Scomodo a Roma si terrà la conferenza promossa da UNePSI (University Network for Psychedelic Students Italy - li ho presentati in una precedente newsletter) sulla terapia assistita da psichedelici.
Un momento di confronto e approfondimento in cui si parlerà di scienza, salute mentale, etica e futuro della ricerca accademica e universitaria in questo campo emergente.
Potete iscrivervi a questo link.
In questo articolo Ching et al. analizzano in profondità l’esperienza soggettiva di persone con disturbo ossessivo-compulsivo trattate con una singola dose di psilocibina all’interno di uno studio randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo.

È uno studio qualitativo, non si concentra solo su scale e punteggi, ma prova a capire che cosa succede davvero, dall’interno, durante e dopo l’esperienza psichedelica, in una popolazione clinica complessa e spesso refrattaria ai trattamenti standard.
Gli autori hanno intervistato 12 pazienti circa un mese dopo la somministrazione, analizzando le trascrizioni con l’Analisi Fenomenologica Interpretativa, un approccio che dà grande peso al modo in cui le persone attribuiscono significato alla propria esperienza. Una scelta particolarmente sensata nel DOC, dove il rapporto con i propri pensieri è il nodo centrale della sofferenza.
Una delle prime cose che emerge è l’importanza del set e del setting. Le aspettative iniziali erano spesso molto alte: il desiderio di guarire, di spegnere definitivamente il DOC. Il lavoro dei facilitatori è stato fondamentale nel riportare queste aspettative su un piano più realistico, spostando l’attenzione dalla promessa di una cura all’idea di esplorazione e apprendimento. Anche l’ambiente ha avuto un ruolo chiave. I facilitatori sono stati vissuti come presenze sicure, capaci di aiutare i partecipanti a rimanere nell’esperienza anche nei momenti più difficili. La musica, come in molti altri studi, ha funzionato da guida emotiva, facilitando immagini, rilascio emotivo e momenti di catarsi.
Gli effetti acuti della psilocibina, sul piano percettivo ed emotivo, sono risultati in parte simili a quelli descritti in altre popolazioni. Ma con una differenza importante. Molti partecipanti hanno raccontato esperienze meno intense, meno “complete”, rispetto a quelle comunemente associate alla psilocibina. Gli autori parlano di esperienze mistiche parziali. Una delle ipotesi è che il DOC interferisca attivamente con l’esperienza: le ossessioni possono riattivarsi proprio mentre l’effetto inizia, portando a comportamenti di controllo o evitamento, come togliersi le cuffie o interrompere il contatto con l’esperienza.
Eppure, anche in queste esperienze parziali, succede qualcosa di clinicamente rilevante. La psilocibina sembra facilitare stati mentali che ricordano molto da vicino i processi centrali delle terapie già utilizzate ed efficaci per il DOC. I partecipanti descrivono momenti di decentramento, in cui i pensieri ossessivi perdono la loro presa e vengono riconosciuti come eventi mentali, non come verità assolute. Emergono stati di mindfulness spontanea, una maggiore capacità di osservare senza reagire immediatamente. Compare anche quello che gli autori definiscono experiential approach: la possibilità di restare con l’esperienza, anche quando è spiacevole, invece di tentare di controllarla o evitarla. Un meccanismo che richiama da vicino l’Acceptance and Commitment Therapy.
I cambiamenti più interessanti emergono però nel periodo post-dose. La riduzione dei sintomi è eterogenea: alcuni partecipanti riportano una remissione significativa, altri un beneficio transitorio, altri ancora soprattutto un cambiamento nel modo di rapportarsi ai sintomi residui. Ed è proprio qui il punto centrale. Molti raccontano di aver mantenuto nel tempo una maggiore flessibilità mentale, un atteggiamento meno rigido e meno giudicante verso il DOC. In alcuni casi questo si traduce in comportamenti concreti: esporsi a situazioni prima evitate, resistere all’impulso di mettere in atto compulsioni, tollerare meglio l’ansia. Processi che ricordano molto da vicino l’Exposure and Response Prevention, ma vissuti dall’interno, come se l’esperienza psichedelica avesse abbassato la soglia di accesso a queste strategie.
Accanto a questo, emerge anche una riduzione dello stigma interno. Meno vergogna, meno segretezza, più disponibilità a parlare del proprio DOC e della propria esperienza. Un aumento della connessione con gli altri che, per chi vive da anni intrappolato in pensieri vissuti come inaccettabili, non è affatto un dettaglio.
Gli autori non propongono la psilocibina come soluzione magica. Al contrario, suggeriscono che il suo potenziale stia proprio nel facilitare processi psicologici già noti e validati, rendendoli più accessibili. Da qui l’ipotesi, molto interessante, di protocolli integrati che combinino psilocibina assistita con ACT e/o ERP.
Se il DOC è uno stagno ghiacciato, la psilocibina non sempre rompe il ghiaccio in un colpo solo. Ma può creare increspature e crepe. E a volte è più che sufficiente per iniziare a sciogliere qualcosa.
Anche quando l’esperienza psichedelica non è “completa”, quando non c’è la grande dissoluzione dell’io o l’illuminazione improvvisa, può comunque innescare piccole fratture in una struttura mentale estremamente rigida. Fratture sufficienti a far entrare luce e, col tempo, a permettere alle persone di fare il lavoro più difficile: cambiare il proprio rapporto con i pensieri, non eliminarli.
Alla prossima e buone feste! 😎
Non sei ancora iscritto alla newsletter?