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Il ruolo del terapeuta nelle sfide dell’integrazione psichedelica
Un contributo della Dott.ssa Marta Erba
In apertura voglio segnalare un evento che credo meriti attenzione. A ottobre la MIND Foundation, organizzazione europea senza scopo di lucro che da anni promuove ricerca scientifica e formazione professionale sugli stati modificati di coscienza, porterà per la prima volta in Italia uno dei suoi programmi più noti: Beyond Experience.
Dal 9 al 12 ottobre a Firenze, quattro giornate intensive che intrecciano pratiche corporee, esercizi di respirazione, attività creative e momenti di psicoeducazione, con l’obiettivo di trasformare le esperienze psichedeliche in consapevolezza duratura.
A raccontarmi cosa rende questo workshop speciale è stato Daniele Damiani, psicoterapeuta del direttivo di SIMEPSI, che lo ha vissuto in prima persona.
«Il valore trasformativo di Beyond Experience sta soprattutto nel fatto che permette di tornare in contatto con l’esperienza non solo a parole, ma anche attraverso il corpo, le immagini, il contesto di vita di ciascuno. È un lavoro individuale che trova forza nel gruppo, capace di contenere ed elaborare ciò che emerge. Non si tratta solo di integrare il passato, ma anche di prepararsi con maggiore consapevolezza al futuro. Forse quattro giorni possono sembrare tanti, ma ricordo bene cosa dissi nel cerchio finale: il tempo è parte integrante del processo di integrazione. È un investimento, un’occasione per fermarsi e dare spazio a ciò che conta, insieme ad altri che condividono lo stesso cammino.»
A Firenze, il workshop sarà condotto da Henrik Jungaberle, Hanna de Waal e dallo stesso Daniele, in un gruppo ristretto e accompagnato da un setting sicuro e strutturato.
Per chi fosse interessato, i dettagli e le modalità di iscrizione sono disponibili qui.
A proposito di integrazione, l’articolo che ospito oggi è scritto dalla Dott.ssa Marta Erba a partire da un recente pre-print.

Marta è una psicoterapeuta con una lunga esperienza di divulgazione scientifica, capace di coniugare il rigore clinico con l’attenzione a rendere accessibili temi complessi. Il suo contributo per questa newsletter è un testo approfondito, che affronta con chiarezza e sensibilità le sfide che i terapeuti incontrano nel lavoro di integrazione.
Non ho avuto modo di conoscerla di persona, se non attraverso qualche scambio telefonico, ma ho apprezzato molto la disponibilità con cui ha accolto il mio invito e la cura con cui ha scritto questo articolo. La ringrazio davvero: spero che anche voi possiate trovare nel suo lavoro spunti utili e stimolanti.
Rinascimento psichedelico: che ruolo ha la psicoterapia?
La maggior parte degli studi clinici sull’efficacia delle sostanze psichedeliche in varie condizioni di salute mentale trascura un aspetto fondamentale: il lavoro svolto dagli psicoterapeuti che affiancano il paziente e accompagnano il processo. Il motivo è ovvio: è molto più complesso valutare l’efficacia di una psicoterapia rispetto a quella di una molecola. Per cui, come avvenuto anche in passato nei trial sugli psicofarmaci, si tende a lasciarla in secondo piano, o a bypassarla del tutto.
Ma considerare le sostanze psichedeliche come semplici farmaci potrebbe rivelarsi un boomerang per le terapie stesse, proprio perché alla base del loro funzionamento non sta tanto - o solo - un effetto biologico, quanto soprattutto un'esperienza psicologica trasformativa. Dare per scontato che persone già fragili possano confrontarsi da sole con percezioni potenzialmente destabilizzanti, in grado di fare emergere ricordi traumatici o sconvolgere le convinzioni più radicate, potrebbe rivelarsi un grave errore, soprattutto considerati i pregiudizi che già gravano su questi trattamenti.
Uno studio esplorativo
Per colmare questa lacuna, o quantomeno cominciare a esplorare l’argomento, un gruppo di ricerca norvegese (Arctic University of Norway) e statunitense (Portland Institute for Psychedelic Science), guidato da Christina Chwyl, nel 2023 ha reclutato e intervistato 20 professionisti della salute mentale che utilizzano terapie psichedeliche (psilocibina, LSD, ayahuasca e MDMA) allo scopo di identificare le sfide che si trovano ad affrontare nel lavoro di integrazione.
Ma che cosa si intende per "integrazione"? Di fatto è il processo alla base della psicoterapia, quello che permette di trasformare esperienze difficili da elaborare, alla base dei sintomi, in parti gestibili e narrabili della propria storia personale. Nel caso di un trattamento psichedelico può voler dire aiutare a dare un senso all’esperienza, fare cioè in modo che gli “insight” - i momenti di illuminazione e comprensione profonda - possano consolidarsi e favorire una crescita personale e un maggior equilibrio interno (di mente, corpo e spirito) ed esterno (relativo all’ambiente e alle relazione sociali).
La riemersione dei traumi
La sfida principale con cui si sono confrontati i 20 intervistati è la possibile riemersione di traumi rimossi. Alcuni pazienti, dopo una sessione con sostanze come psilocibina o ayahuasca, si sono trovati di fronte a emozioni e ricordi che avevano minimizzato o represso per anni (“È come se ci fosse stata una catastrofe naturale: ora tutto è calmo, ma se mi guardo intorno vedo solo macerie e detriti da ripulire”; “È stato come rivivere un’esperienza del passato che è tornata a essere reale, con la stessa paura di allora”).
In alcuni casi gli psichedelici sembrano guidare il processo integrativo: alcuni pazienti hanno riferito di poter accedere a sentimenti di tristezza e angoscia in modo più “facile”, o di vedere con chiarezza la disfunzionalità di alcuni comportamenti (“All’improvviso ho capito che l’uso di sostanze era un modo per allontanarmi dal mio trauma: ora ne vedo chiaramente i danni e non riesco più a ignorarli”).
La terapia psichedelica sembra cioè abbassare o scardinare i meccanismi di difesa messi in atto in seguito ai traumi, permettendo per esempio di capire che alcuni comportamenti (come dipendenze, tradimenti, continui cambi di lavoro, ma anche la tendenza a iperadattarsi o a giudicarsi negativamente) servono a “coprire” esperienze traumatiche sottostanti. Ma comprendere le difese non equivale sempre a integrarle. A volte, cioè, il trauma torna semplicemente a galla: e proprio perché le difese aiutano comunque a trovare un equilibrio (per quanto disfunzionale), lasciare il paziente in balìa di se stesso può farlo precipitare nell’angoscia o in comportamenti altrettanto e anche più pericolosi, come l’uso di sostanze, lo shopping compulsivo, o comportamenti autodistruttivi fino al suicidio. È quella che in gergo si chiama “ritraumatizzazione”.
La vicinanza di un terapeuta proteggerebbe invece dalle ripercussioni di un eventuale “bad trip”: alcuni degli intervistati ritengono che le esperienze apparentemente più destabilizzanti possano aprire la strada a una comprensione più profonda della natura del trauma, e che di fatto non esistono “bad trip” se la relazione col curante è solida e se il paziente è stato preparato ad affrontare anche gli aspetti più difficili del suo percorso di guarigione.
Andare piano
Questo è un punto chiave: la maggioranza dei professionisti sottolinea l’importanza di un lavoro terapeutico di preparazione e “messa in sicurezza” del paziente prima dell’esperienza psichedelica. Si parte da un’anamnesi accurata (che metta in luce, per esempio, episodi psicotici o maniacali, o familiarità con essi), si passa poi a un rinforzo delle risorse interne ed esterne (è cioè importante lavorare anche sull’ambiente di supporto) e una psicoeducazione su concetti come la “finestra di tolleranza” (che permette di monitorare in modo collaborativo i livelli di arousal e di apprendere le tecniche di grounding) e più in generale sulla teoria del trauma e delle difese, in modo da inquadrare i disturbi del paziente. Possono essere utilizzate varie cornici teoriche, come l’Internal family system (un approccio che mira a identificare e bilanciare in modo armonico le diverse parti del sé), la terapia sensomotoria e la Somatic Experiencing (che enfatizzano il ruolo del sistema nervoso autonomo, utile soprattutto a integrare sensazioni corporee o movimenti involontari come quelli che le tradizioni orientali chiamano “Kundalini shakti”, risveglio della Kundalini) o l’EMDR (molto studiata nell’integrazione dei vissuti traumatici).
Il terapeuta può anche aiutare a superare eventuali resistenze al trattamento: alcuni pazienti temono gli psichedelici proprio per la paura di far emergere esperienze che hanno faticosamente rimosso o con cui non vogliono confrontarsi.
Il “ritorno alla realtà”
Un altro ostacolo da affrontare è il ritorno alla vita quotidiana e agli obblighi familiari e lavorativi dopo l’esperienza psichedelica. Molti pazienti, dopo aver vissuto momenti di profonda introspezione ed essere venuti in contatto con i propri bisogni spirituali, necessitano di tempo prima di ritornare al ritmo frenetico della vita di tutti i giorni.
Tornare alla realtà potrebbe anche voler dire riprendere a vivere con familiari (partner, genitori, figli) che potrebbero non essere preparati a interfacciarsi con una persona in una fase così delicata. In alcuni casi, per evitare rotture o conflitti relazionali potrebbe essere necessario prevedere un lavoro di psicoeducazione, se non di vera e propria terapia, anche con la famiglia. Serve a scongiurare quel senso di solitudine e alienazione frequente dopo un’esperienza spirituale profonda, che difficilmente può essere compreso da chi quell'esperienza non l’ha mai sperimentata.
Più in generale, il paziente va aiutato ad affrontare quel senso di disorientamento e disconnessione quasi inevitabile quando, dopo l’esperienza psichedelica, è costretto a rientrare in un clima sociale e culturale (quello “occidentale”) che tende a ignorare o addirittura a stigmatizzare gli “insight” spirituali, e che propone valori antitetici quali l’individualismo, il materialismo o il razionalismo.
Cambiamenti di vita
Gli psichedelici possono poi far emergere incongruenze importanti tra la vita del paziente e il sé autentico: l’integrazione di queste nuove consapevolezze può non essere semplice, e portare a crisi esistenziali e identitarie profonde. C’è chi mette in discussione le proprie credenze religiose o spirituali, chi l’orientamento sessuale, chi l’identità di genere. Ne possono derivare crisi depressive importanti o conflitti con l’ambiente di appartenenza.
Per esempio, una persona potrebbe mettere a fuoco il desiderio di avere un figlio - o di non volere una famiglia - in un’età in cui non è più possibile “tornare indietro” e modificare le cose. Oppure potrebbe essere indotta a comportamenti precipitosi e potenzialmente deleteri (come lasciare il partner o il lavoro) per “recuperare il tempo perduto”.
Più in generale i pazienti potrebbero sentirsi sopraffatti dalla portata del cambiamento sentito necessario - non sempre realizzabile - dopo il viaggio psichedelico. È proprio nel successivo cammino dell’integrazione che si gioca la vera sfida terapeutica. E in questo percorso, la presenza di professionisti preparati, empatici e culturalmente sensibili si rivela fondamentale.
Visioni di abusi
L’esperienza del terapeuta è tanto più importante se durante l’esperienza psichedelica dovessero riaffiorare ricordi di molestie o abusi sessuali. Uno degli intervistati ha raccontato, per esempio, che una paziente, durante una cerimonia a base di Ayahuasca, ha riportato la forte sensazione di essere stata molestata dal padre quando era bambina. In situazioni di questo tipo è fondamentale che il terapeuta adotti uno stile esplorativo, con domande aperte e rispettose, e che non imponga interpretazioni “letterali”: che conosca cioè il linguaggio simbolico dell’esperienza psichedelica, simile a quello dei sogni, e che sia in grado di abbracciarne l’ambiguità e l’incertezza. In altre parole, è molto probabile che il ricordo di un abuso sessuale subìto da bambini corrisponda a qualche forma di abuso reale, ma non necessariamente sessuale, non necessariamente perpetrato dalla persona che compare nella “visione” e - considerato quanto sta emergendo dagli studi sui traumi transgenerazionali - non necessariamente subìto da chi lo ha ricordato. Anche qui, la formazione del terapeuta gioca un ruolo fondamentale nella corretta integrazione dell’esperienza.
Questione chiave: la formazione
Che un professionista sia preparato è cruciale anche alla luce delle conseguenze di eventuali rotture relazionali con i curanti. Gli intervistati hanno raccontato di facilitatori che si sono comportati in modo inappropriato, violando i confini e i bisogni spirituali del paziente (che si trova in un momento di particolare vulnerabilità) e commettendo abusi legati al genere o all’etnia. Qualche esempio: un musicista si è sentito forzato ad ascoltare musica non in sintonia con lui; a una donna cinese è stato impedito di contattare la famiglia.
In sostanza, tutti i professionisti intervistati sottolineano l’importanza di uno spazio in cui aiutare attivamente l'integrazione dell’esperienza psichedelica, fornendo un supporto interpersonale e una cornice interpretativa che aiuti a “dare senso” a quanto sperimentato.
Tutti concordano sul fatto che il processo di guarigione è paragonabile a un percorso a zig-zag, o a spirale, o comunque non lineare. E che questo percorso, con le sue caratteristiche e i suoi tempi, vada in qualche modo rispettato e “onorato”, come l’esperienza psichedelica stessa.
Un percorso specifico?
Sulla base di questo, gli autori della ricerca ipotizzano l’introduzione di un consenso informato che ribadisca l’importanza di un lavoro psicoterapeutico di accompagnamento, che metta in guardia dalle aspettative irrealistiche e dai rischi, che informi sulle possibili difficoltà nel ritornare alla vita di tutti giorni e che raccomandi di non assecondare decisioni impulsive e di rispettare i tempi necessari per un lavoro di integrazione e di crescita.
Potrebbe inoltre essere necessario costruire una cornice teorica specifica, che tenga conto della peculiarità delle esperienze psichedeliche (potrebbe essere fondamentale, per esempio, che il terapeuta stesso abbia una conoscenza diretta di queste esperienze), e che faccia tesoro di quanto già viene fatto nelle culture tradizionali che già utilizzano queste sostanze come strumento di guarigione.
Del resto Jon Kabat-Zin, quando ha ”occidentalizzato” la meditazione vipassana, ha rispettato e onorato l’esperienza dei maestri zen, rendendola parte integrante del training necessario per diventare istruttori di mindfulness. Allo stesso modo, per “occidentalizzare” le terapie psichedeliche, non si dovrebbe prescindere dall’esperienza secolare delle tradizioni sciamaniche.
Un grazie a Marta per aver arricchito questa newsletter con il suo contributo, e per aver messo a disposizione tempo ed esperienza per affrontare un tema tanto complesso quanto necessario.
Alla prossima! 😎
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