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Il microdosing non cura la depressione
Il più grande studio sul microdosing di LSD fallisce tutti gli endpoint
Negli ultimi anni il microdosing è diventato una sorta di fenomeno culturale, se ne parla ovunque, spesso con un entusiasmo che supera di molto quello che la letteratura scientifica riesce a dimostrare.
MindBio Therapeutics ha appena concluso un trial di fase 2b su 89 persone con disturbo depressivo maggiore, confrontando microdosi di LSD (tra 4 e 20 microgrammi) con un placebo attivo: la caffeina.
Il protocollo era costruito con una cura particolare per la validità ecologica: dosaggi a casa, titolazione libera, attività psicologicamente benefiche scelte dai partecipanti e perfino un supporto psicologico pensato per potenziare gli effetti percepiti. Insomma, tutto il possibile per evitare che il microdosing venisse penalizzato da un setting troppo rigido. Uno studio quasi su misura per lui.
E invece.
Dopo 8 settimane, entrambi i gruppi mostrano un miglioramento, ma quello con la caffeina migliora di più.
Nessun endpoint è raggiunto.
Nessuna differenza statisticamente significativa.
Il microdosing è rimasto indietro rispetto a un placebo attivo che, per quanto attivo, resta pur sempre… caffeina.
A questo punto la domanda nasce spontanea: abbiamo passato anni a discutere se le microdosi di LSD possano migliorare l’umore, quando la risposta era nel bar sotto casa? Naturalmente non è così semplice, ma l’ironia della situazione resta irresistibile.
Lo stesso CEO dell’azienda, Justin Hanka, si è detto “sorpreso e deluso”. Con un certo coraggio, Hanka ha dichiarato che con buona certezza il microdosing di LSD non è efficace per trattare la depressione maggiore. Un’affermazione che pesa, soprattutto se arriva da chi ha investito anni e risorse in questo programma.
Qualche sostenitore del microdosing ha già iniziato a cercare limiti nel protocollo: dose troppo bassa, durata troppo corta, placebo troppo attivo, troppa caffeina, troppo poco LSD, troppo di qualunque cosa possa salvare l’ipotesi. Tutte ipotesi legittime, sia chiaro, ma per ora nessuna con un supporto reale.
La parte più interessante (e più problematica) è il contrasto con lo studio di fase 2a, pubblicato pochissimi giorni prima: un open-label che mostrava un miglioramento del 60% dei sintomi depressivi, mantenuto fino a sei mesi. Risultati quasi troppo belli per essere veri. E infatti…
Non voglio insinuare motivazioni strategiche che non posso dimostrare (vedi marketing, investitori, tentativi di mantenere alta l’attenzione per non crollare in borsa), ma la dinamica resta singolare. Soprattutto perché lo studio di fase 2a, essendo in aperto, non aveva alcuna possibilità di reggere la comparazione con un trial controllato. Se l’azienda aveva già un’idea di come stesse andando la fase 2b (qualcosina sapeva per forza, su), la vicinanza tra i due annunci crea inevitabilmente perplessità.
Questa sequenza dice molto su quanto il microdosing sia un terreno in cui aspettative, entusiasmo e realtà scientifica si incrociano in modo spesso imprevedibile.
Da parte mia, continuo a pensare che il microdosing sia un fenomeno da osservare con attenzione. Le esperienze soggettive non sono prove cliniche, ma non sono nemmeno rumore di fondo. Sono segnali, magari confusi, ma a volte anticipano intuizioni che la scienza formalizza solo anni dopo.
Però bisogna essere onesti: in questo momento, l’unico dato solido è che il microdosing di LSD non funziona come trattamento per la depressione maggiore, almeno nelle condizioni rigorose di un trial ben progettato.
Non c’è nulla di male a dirlo. Ogni tanto la ricerca serve proprio a questo: mettere ordine, togliere un po’ di entusiasmo dove serve, e ricordarci che non tutto ciò che sembra promettente regge alla prova dei fatti.
Rimane questa piccola ironia finale: in uno studio quasi impeccabile, la caffeina ha mostrato un effetto superiore. Non è certo un invito a reinterpretare il cappuccino come trattamento, ma piuttosto un promemoria della delicatezza con cui il cervello risponde al contesto e all’aspettativa. È sorprendente quanto poco basti, talvolta, a modulare la percezione del nostro benessere.
Il microdosing continuerà a essere studiato, discusso e praticato.
Probabilmente non sarà destinato a diventare un antidepressivo.
Forse ha altre funzioni, altre nicchie, altre modalità d’uso che ancora non comprendiamo.
Alla prossima 😎
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