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Psichedelici e cancro della prostata
Una fotografia del presente che apre nuove domande
IMPORTANTE COMUNICAZIONE DI SERVIZIO
Venerdì 19 dicembre alle ore 10:30, davanti al Ministero della Salute (Lungotevere Ripa 1, Roma) ci sarà la consegna delle firme raccolte dall’Associazione Luca Coscioni per la campagna “L’Italia apra agli psichedelici”.
Sono state superate le 15.000 sottoscrizioni, contribuendo significativamente ad aprire dibattito nazionale sul tema.
Questo straordinario sostegno ha consentito interlocuzioni con l’Agenzia italiana per il farmaco (con la quale ho avuto il piacere e l’onore di parlare io stessa) e la parte sanitaria del Ministero della Difesa, incontri che hanno confermato l’impostazione delle proposte e registrato attenzione istituzionale e accademica.
Siete tutti invitati a presentarvi davanti al Ministero, dove troverete il nostro Marco Perduca ad accogliervi con una delle sue iconiche t-shirt.

Questa settimana, finalmente, parlo del mio pane quotidiano: tumori (grande allegria).
Ufficialmente anatomopatologa, mi sono imbattuta in questo articolo che esplora la possibile associazione tra uso di psichedelici e tumore della prostata. La foto all’inizio di questo post è un vero adenocarcinoma della prostata da me fotografato al microscopio giusto ieri l’altro

Lo studio in questione utilizza un grande dataset nazionale americano (NSDUH) per valutare se, tra gli uomini sopra i 50 anni, chi ha usato psichedelici nella vita riporti più diagnosi di tumore alla prostata.
Risposta breve: sì, un’associazione c’è.
Risposta meno breve: calma, molta calma.
Innanzitutto va riconosciuto che lo studio è tecnicamente ben fatto. Il database è rappresentativo, la statistica è robusta, c’è un controllo diligente di tutti i fattori confondenti possibili, gli autori sono trasparenti, non si inventano nulla, non fanno sensazionalismo. La loro domanda è legittima: se gli psichedelici modulano il sistema serotoninergico e questo sistema può avere effetti sulla proliferazione cellulare, ha senso chiedersi se ci sia qualche relazione con i tumori.
Detto questo, ci sono dei limiti metodologici importanti, che non invalidano lo studio ma ne delimitano l’interpretazione.
Per prima cosa parliamo di un disegno trasversale, in pratica una foto scattata in un istante. Si chiede alle persone: “Hai mai usato LSD o psilocibina?” e “Hai una diagnosi di tumore alla prostata?”.
Il che significa che non sappiamo quando sia avvenuta l’esposizione e quando l’esito. Potrebbero aver usato psichedelici negli anni ’70, oppure l’anno scorso dopo la diagnosi. Non solo, lo studio non distingue frequenza, dose, durata, nulla. Dal punto di vista clinico è come chiedere “Hai mai bevuto un caffè?” e poi cercare correlazioni con, non so, la probabilità di avere l’Alzheimer.
Gli studi trasversali non stabiliscono causalità, e questo è un dato di fatto.
Secondo grande elefante nella stanza: l’auto-riferimento.
La diagnosi di tumore alla prostata non è confermata da cartelle cliniche o registri oncologici, ma dichiarata dai partecipanti, e anche l’uso di psichedelici è auto-riferito.
È un limite comune a moltissimi studi epidemiologici basati su grandi survey, non una colpa degli autori, ma è importante ricordarlo quando si interpretano risultati su temi così delicati.
Un altro elemento da tenere a mente è la dimensione del gruppo che mostra l’associazione. Lo studio includeva 19.460 uomini sopra i 50 anni, ma gli utilizzatori di psichedelici erano una percentuale minuscola, lo 0,3–0,5% del campione totale. Numeri così piccoli rendono le analisi statistiche molto delicate.
È un po’ come vedere tre persone in fila al supermercato con il cappotto e pensare che sia di moda quest’anno… poi scopri che quella fila era proprio davanti ai frigoriferi dei surgelati. In gruppi così piccoli basta un dettaglio ambientale per far sembrare un trend ciò che potrebbe essere semplicemente una coincidenza.
Inoltre con gruppi così piccoli, ogni singolo caso pesa tantissimo e può cambiare completamente la lettura del risultato. Se io ho una classe di quattro studenti dove tre prendono 30 e uno prende 18, la media sembra altissima. Ma se domani uno solo di loro prende un voto più basso, la media crolla.
La parte più curiosa è che l’associazione compare solo negli utilizzatori esclusivi di psichedelici, mentre sparisce in chi usa psichedelici insieme alla cannabis. Gli autori ipotizzano un possibile effetto biologico protettivo dei cannabinoidi, ipotesi interessante, da esplorare.
Ma c’è anche una spiegazione molto più semplice: questi due gruppi non sono affatto simili. Chi usa solo psichedelici e chi ne usa insieme alla cannabis ha età diverse, stili di vita diversi, percorsi sanitari diversi, livelli di screening diversi. Quando i numeri sono piccoli, queste differenze possono creare un’apparente “protezione” o “rischio” che dipende più dal profilo delle persone che dalle sostanze in sé.
Il risultato è intrigante, ma non ci permette ancora di dire se c’è un meccanismo biologico o solo un effetto del contesto.
Lo studio non dice che gli psichedelici aumentano il rischio di sviluppare cancro della prostata, non dice che c’è una relazione temporale né un meccanismo, non ci dice nemmeno che questo risultato sia replicabile altrove.
Ci dice però che l’associazione è statisticamente significativa.
Tuttavia questo non significa che sia biologicamente significativa, clinicamente importante o causalmente vera.
E allora cosa ce ne facciamo?
Ce ne facciamo esattamente quello che gli autori suggeriscono: una ipotesi di lavoro.
Un punto di partenza per studi molto più solidi, longitudinali, che possano davvero chiarire la sequenza temporale e, se esiste, un meccanismo biologico plausibile.
Personalmente, lo trovo un segnale incoraggiante. La ricerca sugli psichedelici sta finalmente entrando in territori complessi e interdisciplinari, sta facendo le domande difficili, quelle che servono davvero per comprendere gli effetti sul corpo umano nel lungo termine.
Se oggi siamo davanti a una fotografia, aspettiamo con impazienza i video, che sono sicura arriveranno a breve.
Alla prossima! 😎
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