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MDMA-AT nel PTSD: alleanza terapeutica e self-experience

MDMA al servizio della psicoterapia

In questo preciso momento, se ho calcolato bene i tempi, dovrei essere da qualche parte in volo tra Singapore e Ho Chi Minh, pronta ad iniziare le mie ferie.

Dato però che avevo in programma di portarti questo approfondimento della MDMA-AT (Assisted Therapy) già la scorsa settimana, ho pensato che la tecnologia poteva lavorare a mio favore e ho quindi programmato la newsletter con largo anticipo.

La mia recente full immersion nella MDMA-AT, con due articoli freschi di stampa, mi ha lasciata da un lato estremamente delusa, dall’altro mi ha catapultato in un mondo che non mi compete e che ho fatto un po’ fatica a decifrare.

Voglio iniziare con questo articolo del team di Zeifman et al. in cui si va ad analizzare l’importanza dell’alleanza terapeutica nella MDMA-AT per il trattamento del PTSD.

Le premesse dell’introduzione sono giuste ed interessanti: si è parlato tanto dell’importanza del ruolo della psicoterapia nella MDMA-AT (che loro precisano essere MDMA-PT per psicoterapia), ma nessuno si è mai preso la briga di stabilire il ruolo ed il peso dell’alleanza terapeutica tra paziente e professionista nell’outcome complessivo del trattamento.
Un dato che invece sarebbe utile conoscere, visto che si pensa possa far variare il risultato terapeutico di ben il 12%.

Esiste una scala di valutazione per misurare l’alleanza terapeutica, la Working Alliance Inventory (WAI), che valuta:

  • legame tra paziente e terapeuta (fiducia, confidenza..);

  • obiettivi, ossia essere d’accordo su quali sono le priorità della terapia e l’outcome che si vuole raggiungere;

  • compiti, concordare su quali sono i processi e i mezzi per raggiungere i suddetti obiettivi.

Fin qui tutto bene.

Poi però mi sono parecchio sdubbiata, che non so nemmeno se sia effettivamente una parola italiana ma qua in Toscana vuol dire che le cose non mi sono tornate e ho perso interesse.

Infatti, lo studio ha utilizzato dati di un precedente lavoro dell’esimio Dr. Mithoefer… del 2011 🥶 e con soli 21 pazienti.

Perché?
Sinceramente ho fatto fatica a capirlo. Forse per problemi burocratici, o di privacy, o di finanziamenti. Ammetto che non ho approfondito per trovare una risposta. Mi pare assurdo che l’articolo sia stato inviato alla rivista il 19 giugno 2023 quando erano già ampiamente stati pubblicati i risultati dello studio di fase 2 di MAPS (non ancora quelli della fase 3), ma si è preferito comunque rivolgersi al 2011. Il 2011! Con 21 pazienti!
No via, per me l’intero lavoro è bocciato. Capisco che nel titolo parlano di “evidenze preliminari”, ma si poteva decisamente fare di meglio.

Mi dispiace essere così drastica, soprattutto perché non ho effettivamente dedicato tempo a leggerlo con attenzione nella sua interezza.
Siamo in questo momento storico dove basta inviare ad una rivista un articolo con la parola magica “psichedelico” e ti pubblicano la qualunque.
C’è davvero bisogno di essere più rigorosi.

Per correttezza sono comunque voluta andare a leggere la parte finale della discussione per capire i risultati: l’alleanza terapeutica sembra essere in grado di predire l’outcome del trattamento, quindi maggiore la misura dell’alleanza, più probabile il miglioramento sintomatico.

Sono andata quindi a studiarmi, o meglio, cercare di studiarmi, questo lungo articolo di van der Kolk del team di Rick Doblin.

Dire che ho fatto fatica è dir poco. Non sono una psicologa e mi è risultato di difficile digestione, ma è decisamente ben scritto e ha fatto sorgere delle riflessioni interessanti.

Cercherò di essere semplice, ma se per caso sei uno psicologo e vuoi rispondere a questa email con delle precisazioni sarò ben felice di approfondire ed imparare.

Le premesse sono intuitive: dopo numerosi traumi, avrò difficoltà a distaccarmi dalle passate esperienze, così come sarà problematico regolare le mie emozioni, e probabilmente non le saprò neanche identificare o descrivere (alessitimia); avrò quasi di certo anche scarsa compassione per me stessa, farò fatica a perdonarmi per gli eventi accaduti e, anzi, sarò molto critica.
Tutto questo rema contro l’efficacia della psicoterapia in generale.
E per quanto riguarda la MDMA-AT?

Ci sono multiple scale di misurazione che vengono usate, complessivamente, per definire l’esperienza del sé e l’eventuale impatto sull’outcome terapeutico:

  • The Inventory of Altered Self Capacities (IASC), da 9 a 45, per misurare le difficoltà nelle relazioni, nell’identità e nella regolazione delle emozioni;

  • The Toronto Alexithymia Scale (TAS-20), per misurare le proprie difficoltà nel riconoscere e verbalizzare le emozioni, con valori sopra il 61 indicativi di alessitimia;

  • The Self-Compassion Scale (SCS), per misurare la percezione del paziente nei confronti dei fallimenti, della sofferenza etc, con valori inferiori a 2,4 indicativi per bassa self-compassion.

Vengono randomizzati 90 pazienti ed i risultati sono estremamente precisi:

  • il gruppo della MDMA-AT, rispetto al gruppo con placebo e psicoterapia, ha registrato miglioramenti statisticamente significativi per tutte le variabili considerate tranne che per un singolo fattore della IASC, la diffusione dell’identità (copio da Wikipedia: “la diffusione è quando a una persona mancano sia l'esplorazione della vita sia l'interesse a impegnarsi anche nei ruoli non scelti che occupa”);

  • coloro che avevano iniziato il trial con punteggi di alessitimia più alti, hanno dimostrato una maggiore riduzione nello score del CAPS-5 (scala di valutazione del PTSD).

Significa che la MDMA è di beneficio soprattutto per quelle persone che partono da una situazione psicologica estremamente difficile.
Tutto torna, considerando che la MDMA serve proprio a promuovere l’apertura e la connessione con l’altro e con se stessi, permettendo di modulare le emozioni nei confronti di quei ricordi che normalmente sono blindati ed inaccessibili, e che invece sono necessari per un miglioramento della sintomatologia da PTSD.

Inoltre, la MDMA-AT ha migliorato la self-compassion in maniera indipendente rispetto al trattamento del PTSD, e questo potrebbe essere interessante per eventuali applicazioni future.

van der Kolk condivide una sottile precisazione molto interessante.
Uno dei principali obiettivi della psicoterapia è quello di aiutare il paziente a conoscersi e accettarsi; i terapeuti che hanno partecipato allo studio sono tutti esperti e con una preparazione eccellente, eppure il gruppo placebo ha riscontrato scarsi miglioramenti, se non addirittura scarsissimi in alcuni parametri.
Non è quindi la psicoterapia che aiuta l’MDMA, ma l’inverso, è l’MDMA che permette alla psicoterapia di trattare anche quei pazienti che altrimenti non trarrebbero giovamento da una terapia standard.
In quest’ottica è davvero giusto parlare di terapia assistita da MDMA (MDMA-AT).

C’è infine un appunto che sono stata molto contenta di veder scritto nero su bianco: ci sono tante polemiche e dubbi sulla sicurezza del paziente nella MDMA-AT per quanto riguarda le molestie sessuali e perché il “potere” del terapeuta rischia di diventare eccessivo in queste condizioni di estrema vulnerabilità.
Si devono approfondire le metodiche di psicoterapia utilizzate (al momento un po’ un gran calderone) per raggiungere standard di sicurezza ottimali, soprattutto perché ormai sappiamo bene quanto set e setting siano fondamentali nella riuscita di una terapia psichedelica.

Alla prossima!
Che non so di preciso quando sarà, le ferie prima di tutto 😎 

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